lunedì, maggio 10, 2010

LE DUE DESTRE… O TRE? a cura di MARIANO TURIGLIATTO

Lo scontro fra Fini e Berlusconi è la straordinaria efficace drammatizzazione di due filoni di pensiero che attraversano da tempo la destra italiana, prima sottotraccia, ora in modo evidente e perfino troppo chiaro. Forse, fra l’altro, oramai le destre sono diventate tre.

La prima destra è quella che appartiene alla famiglia delle destre conservatrici europee: si richiama ai valori liberisti, alla funzione dello stato regolatore, ai principi dell’ordine nella libertà, all’ampliamento delle libertà individuali, alla riduzione delle tasse e, per conseguenza, dei servizi pubblici e delle forme più spinte di assistenza e sostegno sociale. In questa destra ci stanno anche larga parte degli eredi del MSI, poi AN, insomma degli eredi del neofascismo italiano. Questi sono approdati alla destra moderna attraverso una revisione non tanto degli ideali profondi, quando dal riconoscimento del loro anacronismo, in questo operando un processo non dissimile da quello degli ex comunisti. Dall’ispirazione originaria e dall’appartenenza alla grande famiglia della destra costituzionale europea traggono un radicato e forte senso dello stato e delle istituzioni, il rispetto per le regole e l’attenzione allo sviluppo dei diritti individuali come espressione del massimo della libertà.
La seconda destra, quella Berlusconiana, si ispira al populismo: la democrazia e le sue regole sono un continuo ostacolo al dispiegarsi dell’azione del leader che, diversamente, potrebbe fare di più e meglio. Peccato che non possa perché i magistrati, i giornali, i sindacati, il parlamento, i politici… E’ una destra intimamente fascista, irriguardosa e irriverente verso le regole perché non le ritiene il fondamento del vivere comune, ma solo un impedimento da superare cambiandolo e semplicemente sbattendosene. Piace perché illude che i problemi possano essere superati scavalcandoli. Questa destra consuma concetti, persone, idee con grande facilità perché assume il loro valore commerciale (di propaganda, di raccolta di consenso) come l’unico da considerare. Se vince le elezioni, prende il piatto e occupa lo Stato, come una cordata di imprenditori occupa una società dopo aver vinto un’OPA. Questa destra afferma tutto e il suo contrario perché ha l’obbiettivo riconquistare il potere per gestirlo fino in fondo, non per realizzare un progetto di trasformazione della società. Dunque si alimenta anche del suo contrario, l’antiberlusconismo.
Poi c’è una terza destra, quella leghista, che sta definendo meglio i suoi connotati sposando un profilo xenofobo, ma soprattutto connotandosi sempre più come la destra che difende i territori contro lo stato centrale, che conquista le altre destre per ricondurle a sostener programmi e progetti che disarticolano la struttura dello Stato illudendo che così migliori la ricchezza e la disponibilità dei territori. Dura fin che non viene messa alla prova. Questa destra, però, potrebbe un giorno saldarsi (in parte già è accaduto) con i movimenti estremisti neofascisti che non trovano più interlocuzione nei loro politici di riferimento.

Fino a quando le due (tre) destre potranno convivere pacificamente? La domanda se la sono posta in tanti negli anni passati. L’apparente quiete suggeriva che la conquista e la gestione del potere avesse quel potere calmante sui leaders, così da far preferire loro compromessi non sempre onorevoli a una battaglia che il capo avrebbe certamente vinto e che avrebbe lasciato per strada cadaveri importanti a monito di coloro che un domani avessero voluto ribellarsi. Il capo ha tutto: televisioni, giornali, case editrici, ha soprattutto schiere di servi che si sono messi a sua disposizione secondo l’attitudine a leccare tipica del nostro paese e non da oggi.
Con la rottura fra Fini e Berlusconi, pochi giorni dopo la vittoria nelle elezioni regionali, è oramai chiaro che il banco è saltato. Il tramonto del capo è evidente, è diventato insostenibile persino per i suoi, rischia cadendo di trascinare tutti con sé; certamente la sua caduta imporrà un ridisegno completo di tutta l’architettura politica italiana. I poteri , forti e non, avranno bisogno di nuovi interlocutori e di soggetti politici non troppo compromessi con il ventennio berlusconiano; soprattutto il paese avrà bisogno di una destra moderna, rispettosa dello stato, legalitaria, liberista, come i conservatori inglesi, i democristiani tedeschi e così via. La prima destra, quella di Fini, vuole essere questo e si è messa al lavoro per diventarlo.
Forse la scelta dei tempi non ha corrisposto con i piani che Fini e i suoi avevano fatto, la rottura dell’accordo si è resa necessaria perché, non solo nel nord, la destra leghista sta oramai fagocitando quella belusconiana, non senza traumi e non senza rancori e contrarietà. Il PdL perde voti, la Lega mantiene i suoi, aumenta in percentuale per effetto dell’aumento delle astensioni, ma ha già fagocitato il partito del predellino che, privo di strutture vere di costruzione politica, è estremamente permeabile e soprattutto talmente composito da rivelarsi in ogni occasione talmente fragile da sembrare inesistente.
Finire nelle braccia della Lega, per Fini e quelli della prima destra, sarebbe la morte politica e la fine dei sogni e dei progetti che li hanno portati dal MSI fin qui. Ne va della sopravvivenza, ma anche del futuro politico, della capacità di rappresentare un polo di destra moderna in un paese che prima o poi dovrà fare i conti con le sue istituzioni e con l’idea stessa di rapporto fra queste e i cittadini.

Gli automatismi non funzionano mai, ma credo che la fine del berlusconismo ponga problemi simili e speculari alla sinistra. I valori e le modalità berlusconiane di concepire e gestire il potere sono profondamente permeati anche nella sinistra che ne è diventata in questi ultimi anni fedele sostenitrice (dalle liste bloccate ai piccoli ras locali). Il processo in atto nella destra va per questo ammirato e sostenuto da noi di sinistra per almeno due buone ragioni: rimette in circolo cultura, dibattito, idee; costringe il resto del sistema politico a fare i conti con la speranza di futuro, con la necessità di un cambiamento radicale nella politica e nella società italiana.

Mariano Turigliatto